venerdì 1 aprile 2011

Burcei: viaggio di un ciclista


Mercoledì, 13 dicembre 1995, si festeggia Santa Lucia. A Cagliari 20 gradi e cielo sereno per la giornata più corta dell’anno. Ho il pomeriggio libero e ne approfitto per un giro in bicicletta. Natale è vicino. Porchetti, capretti, anguille, datteri, panettoni e consimili trappole sono in agguato. Niente di meglio che prendersi un bel vantaggio sulle strippate venture. Liberarsi di tremila calorie in un colpo solo è il lasciapassare per mezzo maialetto in più tra dieci giorni. Tremila calorie sono quattro ore tirate di percorso collinare, con qualche salita impegnativa a ritmo sostenuto, ovviamente sulla bici da corsa. Esco da Cagliari e dirigo deciso la prua su Burcei. Burcei. Fa rima con Canazei, Ortisei e Gressoney, ma non è la stessa cosa. Ma per noi sardi basta e avanza. È un paesino a 40 km dalla città, a quasi 700 metri di quota. Sette chilometri di salita impegnativa, ma non trascendentale. Ma per noi isolani, a corto di salite serie, è una vera e propria horse categorie, fuori quota. È l’università della salita. Chi ha la minima velleità di fare montagna seria, parlo di Alpi e Pirenei, deve farla con una gamba sola. È anche un percorso gradevole, immerso nella macchia mediterranea. La salita è accompagnata dalla vista di sughere e lecci secolari, ciliegi e castagni. La foresta attraversata pullula ancora di cinghiali, di cervi e di mufloni. Beeh, pullula è un po’ troppo. Un tempo, forse, pullulava; adesso pullulicchia, ma nelle locandine della pro-loco pullula ancora fiera di sé; tant’è... Sarebbe opportuno che noi ciclisti ci impegnassimo un po’ di più per farla veramente pullulare ancora. All’ingresso di Burcei parte il sentiero che porta a Serpeddì, colle di mille metri, irto di antenne e ponti radio, da cui si domina tutto il Campidano. Purtroppo come ciclista ho tanti difetti. Ad esempio, sono un velleitario cinematico. Cioè avrei la faccia tosta di pretendere che al grasso, e quindi a me, in salita vengano applicate soltanto le leggi della cinematica e non anche quelle della dinamica. Per chi l’avesse nel frattempo dimenticato, rammento che la cinematica è la parte della fisica che studia il moto sotto l’aspetto matematico, mentre la dinamica, al contrario, descrive il moto dei corpi in funzione delle forze che intervengono, cioè il peso, e quindi tiene conto del tempo che lardo e pancetta fanno perdere. Essendo velista sono anche un velleitario astronomico, perché ogni tanto pretendo di applicare l’astronomia marina al ciclismo. È pur vero che a Cagliari il 13 dicembre il sole tramonta alle 16,50, ma sull’orizzonte marino, bello e piatto. In montagna non funziona così, specie dal lato rivolto ad occidente. Risultato: alle porte di Burcei alle quattro del pomeriggio già le prime (forse anche le seconde e le terze) ombre della sera incombono minacciose. Avrei dovuto girare mezz’ora prima, accorciando il percorso. Magari al bivio di Campu Omu, al valico di Arcu ‘e Tidu. Questo nome è tutta una stronzata: ’e Tidu” non significa niente. Deriva dalla solita cagata di mosche nella cartina sgualcita di qualche distratto topografo del secolo scorso. Il vero toponimo è “Arcu neridu”, che significa passo nevicato, nebbioso. Tuttavia i cartelloni dell’Anas, come in tanti altri luoghi, hanno ormai perpetuato lo scempio. La spiaggia di “Margine rosso” sul litorale cagliaritano, ad esempio, altra grande sciocchezza: non ci sono margini lì, ma solo margiànis, cioè volpi. Per farla breve, inverto la rotta solo quando il disco scarlatto del sole si è già tuffato dietro la cima del monte Arcosu, che sarebbe il Resegone di Cagliari (un aiutino per il gallaratese). Al colmo dell’imprevidenza ho portato solo gli occhiali da sole ed il traffico delle feste incomincia a farsi sentire. Farò tutto il possibile per recuperare in discesa. Almeno questa volta la dinamica mi aiuterà. Invece ...pssssh... la ruota posteriore! Bucata. Maledizione, giù subito a riparare la foratura. Calma e sangue freddo! Cinque minuti saranno sufficienti. Calma, ...però. Ne impiego dieci. Monto in sella e via giù a perdifiato. Un chilometro e in piena curva ancora... pssssh! Oooh no, ancora la ruota posteriore! Forse ho pizzicato. È così che diciamo quando il copertoncino acchiappa un lembo della camera d’aria, creando un’ernietta che si spacca immediatamente. Ormai la frittata è fatta. Per fortuna ne ho un’altra di scorta. Di camera d’aria, non di frittata. Un altro quarto d’ora se ne va, imitato dagli ultimi raggi di sole. La pompa è difettosa. Ancora dieci minuti per gonfiare. Ormai sarò costretto ad entrare nei centri abitati senza tirar dritto per la statale. A Quartu Sant’Elena, per esempio, sempreché riesca ad arrivarci, e dovrò attraversarlo senza fari. In compenso salterò la circonvallazione, pericolosissima in piena oscurità. Ho pure un gettone. Male che vada, alla prima cabina telefonica chiamerò qualcuno per venire a riprendermi (ciclismo ante telefonia cellulare: la vita appesa ad un gettone). Passano inesorabili i minuti ed il buio mi sopravanza in velocità. Sono proprio nella cacca… Non c’è dubbio, la situazione volge rapida al brutto; continuare così è proprio un azzardo. Pazienza, scomoderò qualcuno. La prudenza innanzi tutto. Ecco di nuovo il bivio di Campuomu; sono ancora a meno trenta da Cagliari. Passato il bivio e ripresa la statale, sento alle spalle il borbottio d’un diesel, ancora distante, che arranca dall’altro versante e si dirige verso di me. Speriamo sia uno di quei furgoni, carichi e maleodoranti, che rientrano la sera in città. L’ideale sono i motocarri, molto più lenti ed inodori: cravati, ma puliti. Il diesel è più veloce, ma in discesa non mi molla. Pazienza per la puzza. Poi in rettilineo andrà più veloce, toccherà i sessanta. Col buio sarà tosto stargli a ruota. Molto pericoloso. Troppo. Beeh, vedremo. I suoi fari, già accesi (vecchio codice), spazzolano sempre più vividi le curve davanti a me. Mi volto un attimo a controllare; ne scorgo i fari e la sagoma confusa che mi raggiunge molto lentamente. La tecnica di aggancio è facile: di norma, in discesa, ci si fa raggiungere ed affiancare gradatamente; poi, un lieve tocco di freni; appena è passato davanti, uno scatto deciso e ti sistemi a ruota, nella sua scia. Ormai è buio. Il diesel si affianca. Il ronzio del motore è regolare, sembra un Mercedes. Con la coda dell’occhio, mentre mi sorpassa, noto appena la sua sagoma scura, badando invece alla cunetta, pericolosamente vicina. Mi supera. Sembra un carico di fascine. Eccellente, un pick-up pieno di frasche. Adesso si chiamano pick-up; prima, negli anni cinquanta, si chiamavano camioncini. Questi moderni sono più veloci e più comodi, più fighi insomma, sennò nei telefilm americani non li avrebbero usati, né i moderni chow boys, né gli avventurieri di turno. Però caricano poca legna. Qualche fascina di lentischio, “sa modditzi” o di cisto, “su murdegu”, gli arbusti che ardono profumati nei forni e nei focolari caserecci. In compenso, di sabato, caricano molte più fichette.

Il vecchio “OM 315”, invece, chi se lo ricorda? Di fichette non ne caricava, ma di fascine si! Rammento, da bambino, che un paesano lo caricava così tanto che s’impigliava nelle luci della strada e ne tranciava una su tre. Comunque in questo diesel, pick-up o camioncino che fosse, sempre di frasche si trattava e le frasche, come sostiene il mio vecchio amico Billy Bellisai, cravano, cioè inchiodano al suolo, rallentando chi le trasporta, e proteggono chi si accoda, dall’aria e dal vento. Certo, bisogna essere lesti a scansare qualche ramoscello che ogni tanto si stacca, schizzando via pericoloso, ma nulla di più. Mentalmente mi frego le mani; solo mentalmente, sennò potrei cadere, perché siamo in curva. In rettilineo ci si può sfregare le mani anche con le mani. Bene, bene, è proprio cravato, come dice Billy, anche se puzza appena di gasolio mal combusto. Le frasche funzionano egregiamente: riparano a meraviglia. Le frasche. Accidenti, a ben vedere non sono frasche. Anzi, per essere frasche, sono proprio frasche; solo è che sono frasche di palme. Ben riposte, lucide, ordinate. Non in fascine: in corone, con tante rose bianche e garofani rossi. Cazzo, è un carro funebre! Pieno. Pieno; vale a dire con autista davanti e passeggero dietro, con contenitore regolamentare. Che dire? Che fare? Che pensare? Intanto stare in equilibrio. Sulle corone le iscrizioni dorate svolazzano…lugubri. Funeree. E come volete che svolazzassero? Allegre? Garrule? Tintinnanti? Per un attimo la paura della morte vince quella del buio incombente. Sono tentato di lasciarlo andar via. A ruota d’un carro funebre non mi sembra dignitoso. Eppoi un po’ di fifa…Ma in fondo, che diamine!, la morte era passata da un pezzo, lì c’erano solo gli effetti; i resti e basta. Dietro al carro neppure l’ombra di accompagnatori. Mi sarei riparato dietro le loro macchine. Evidentemente non era un funerale. A quell’ora i cimiteri sono chiusi. Era un semplice trasporto di salma. Bene. La prendo con filosofia e, sempre mentalmente, mi rifrego le mani. Dopotutto taglia l’aria meglio d’un motocarro e dietro nessun parente si sarebbe risentito per l’intrusione. Gli estranei nei cortei funebri danno sempre fastidio. Specie quelli che si spacciano per parenti. Funerali o matrimoni, i posti d’onore è meglio lasciarli ai legittimi titolari. Le ampie fiancate di vetro forniscono un riparo eccellente dal flusso impetuoso dell’aria. Le lampade votive laterali (ma sono poi proprio…votive?), funzionando da luci di ingombro, costituiscono un formidabile punto di riferimento sul quale allineare la direzione di marcia. La loro pallida luce non abbaglia, anzi riduce il pericolo di arrotare il paraurti. Tamponare l’auto e rovinare a terra è un esercizio spericolato da evitarsi il più possibile. Eppoi dalle vetrate, oltre la bara, si vede pure la strada davanti, che non si vedrebbe col classico camioncino carico di modditzi e di murdegu. Certo con un bel trattore oppure con uno scavatore sarebbe stato un bell’andare, ma forse a quell’ora è chiedere troppo. Scendiamo da Campuomu lenti e regolari e, superato l’abitato di san Gregorio, abbordiamo finalmente il rettilineo. Spero tanto che non acceleri. Dopotutto, il passeggero che fretta ha? Sono certo che l’autista non si è accorto di me. Chi potrebbe immaginare a quell’ora un cretino a ruota d’un carro funebre? Dal momento dell’accodamento nessun veicolo, d’accompagnatori o d’altri, ci ha raggiunti. Ormai è chiaro: è proprio un trasporto di salma, proveniente da chissà dove e diretto chissà dov’altro. E sembra non avere fretta. L’autista, è ovvio. Mah. Forse, in un attimo di rallentamento, sarebbe stato più prudente superare il carro e fare cenni inequivocabili al conducente di tenere un’andatura moderata. L’avrei spaventato? Un autista di carri funebri si spaventerà di più a veder morti o veder vivi? Tuttavia è sempre pericoloso stare a ruota di qualche mezzo ed è ancor più pericoloso se chi sta davanti è ignaro di chi gli stia dietro, appiccicato. Nel caso in esame, una brusca frenata ed avrei guadagnato un posto dentro, magari non subito, magari con un suo concorrente. La pendenza della strada diminuisce sempre più. Qualche fioca luce di villette, ai lati della strada, contribuisce appena alla visibilità. Le siepi di fichi d’india della pianura intrappolano inesorabili gli ultimi chiarori del sole ormai sopito. Fra poco il carro mortuario mi mollerà. È inevitabile. I camioncini lo fanno tutti nello stesso punto: quattro curve dopo san Gregorio, un rettilineo, una accelerata e il ciclista è bell’e che scrollato. Questo, però, aumenta d’un pelo la sua velocità: si mantiene sui cinquanta. A fatica, ma lo tengo. Ancora qualche doppia curva, la discesa di Burranca, poi il lungo rettifilo della frazione di san Paolo e lì davvero finirà. Evvabbè, tanto proprio lì c’è la cabina telefonica. E invece no, non accelera secco neanche stavolta, anzi rallenta un poco, stabilizzandosi appena sopra i quaranta. Riesco persino a notare la velocità sul ciclocomputer con la luce delle lampade votive. È un attimo di relativa tranquillità: i quaranta sono una comoda andatura di crociera, anche per i ciclisti robustelli come me. Riesco a distinguere ancora nitidi i contorni delle colline e quel vago chiarore del cielo sull’orizzonte, dal lato del sole da poco tramontato (i gallaratesi che guardano il tramonto sul Resegone mi capiranno). Il cielo è terso e l’aria è secca; non c’è foschia: davvero una fortuna! Percepisco persino gli odori: il classico aroma dei fuochi domestici di qualche villino, lì accanto. Quel caratteristico odore di brace di leccio che prelude alla fragranza delle carni arrostite! Oppure il profumo della “modditzi” che arde scoppiettando, che evoca il saporito pane sardo fatto in casa! Il borbottio discreto del diesel, certamente silenziato, mi fa compagnia, l’odore del gasolio è sopportabile e, suvvia, non sarà un’ammiraglia al Giro d’Italia, ma a casa mi ci sta portando. Un vago sentimento di riconoscenza si fa strada in me. Abbozzo un requiem all’indirizzo di chi mi precede. Ogni tanto un garofano si stacca e mi passa vicino sibilante. Non porto il casco ed il fatto mi costringe a bruschi spostamenti del tronco. Il rischio di perdere l’equilibrio è notevole. Se il carro non cambia l’andatura, raggiungerò di sicuro la periferia di Quartu all’estremo crepuscolo. In città, con l’aiuto dell’illuminazione pubblica sarò in salvo e, per giunta, senza disturbare nessuno. Continuo a vedere la strada oltre la bara e le poche macchine coi fari già accesi che ci vengono incontro. Dietro, ancora nessun veicolo. Meglio. Se non fosse per l’oscurità mi sarei tentato una fregatina di mani dal vivo. Sono assorto e concentrato nella guida, quand’ecco un movimento all’interno del carro funebre: il cuscino di fiori sopra la bara, forse fissato male, scivola via. Sobbalzo, ma mi ricompongo. Qualche buca nella strada. Ma che buca e buca, caspita, la bara si muove! Il coperchio scivola giù e rimbalza di lato. Anche quello fissato male? Macché, era proprio una buca. Uno scossone ed il coperchio è volato via. Ma sì, cavolo, la bara è vuota. È tutto un bluff, porta una bara vuota! Tra l’altro, ma che scemo, non si vedevano i sigilli, quelli che fissano tutte le bare occupate stabilmente. Che fesso! Che strizza per niente! No, accidenti! Cribbio, la bara è…abitata. Si è accesa una luce, un chiarore tenue, come di statuine fosforescenti. Una figura si rizza sul tronco. Avrei dovuto dire figura lugubre? Volete che scriva lugubre? Va bene, lugubre. Luguberrima. Si solleva per intero, poi, diafana, si avvicina alla vetrata posteriore. In modo innaturale, come una zoomata stroboscopica. Naturalmente, all’apparire della luce spettrale, chiunque, se avesse avuto la fortuna di non crepare d’infarto, che sarebbe stata la fine più naturale ed avrebbe dato il destro ai soliti: “...ecco, non fanno le visite mediche e poi fanno le scemenze di uscire all’imbrunire e crepano dallo sforzo per tornare in tempo. Poi quello lì ci aveva pure un’onda “T” negativa all’elettrocardiogramma. Ma chi gliel’ha data l’idoneità?” chiunque, dico, che avesse avuto la forza ed i nervi saldi per non lacerare il buio con un urlo bestiale di paura e di raccapriccio, avrebbe dato una robusta tirata di freni e, semprechè fosse riuscito a fermarsi, si sarebbe accasciato in cunetta a pregare, se credente, o si sarebbe apprestato a chissà cos’altro, se agnostico o debole di pancia.Ma quello lì non è un morto, è la ‘Morte’ ed io non riesco a distaccarmene. Non posso fermarmi; non posso proprio. Io quel morto lo conosco. È vestito da ciclista, indossa la tuta che somiglia vagamente a quella del mio gruppo sportivo, sfumata, nell’incerta luce riflessa sul vetro. Pallido, non di pallore cadaverico, ma bianco di debolezza. La fronte è insanguinata, ma il sangue, ormai secco, scorre all’insù. I capelli, folti, sono intrisi anch’essi di sangue. Non porta occhiali. Acuta osservazione, complimenti! Notare che uno non porta occhiali quando non ne porta, è proprio da Sherlook Holmes. Salvo sapere che li usa abitualmente. E costui abitualmente li portava. Forse li aveva persi nell’incidente, perchè la causa del suo decesso sembrava proprio un incidente. Infatti ha un largo sbrego nella fronte, con i lembi ancora aperti. Sembra una melagrana matura. Le mani insanguinate. Le mie mani. Sono proprio le mie e lui sono proprio io. Ecco perchè non posso fermarmi: sono io e rincorro me stesso. Ho il cardio al polso. Lo sento squittire impazzito; dal ritmo avverto che segna una frequenza ben superiore alla mia, di sicuro oltre i 200 battiti. Perchè, oltre lo sconcerto, la macchina aveva ripreso a correre. Ansimo come una vaporiera, le tempie mi martellano. Proseguo come un automa, non riesco a staccarmi da quello che ha tutta l’aria d’essere il mio futuro. E dire che un sacco di gente non riesce, al contrario, a staccarsi dal suo passato. Corro dunque all’impazzata dietro al mio futuro di morte. Non ce la faccio proprio più; un dosso mi mozza il respiro e smetto di pedalare. Quello lì, cioè io, incomincia a parlare. O meglio io credo di sentirmi, o qualcosa del genere, perché il ronzio del motore ed il fruscio delle corone, il rumore del vento e della scia non permettono di sentire altri suoni. Diciamo pure che ci comprendiamo. La macchina, nel frattempo, mi distanzia di qualche metro. Lui mi fissa: “Corri, non fermarti, se ti stacchi mi allontanerò, ma più andrò avanti, più diventerò il tuo presente. Rincorrimi, prendimi, almeno sfiorami ed io non sarò il tuo futuro.” Una corsa pazza verso la vita. Il cuore scandiva per conto suo un ritmo assurdamente mortale. Paradossale: morire per riuscire a vivere! Quel ritmo mortale io lo conoscevo: scherzi dell’elettronica: ogni volta che transitavo in bici in città davanti alla solita banca, i sistemi d’allarme interferivano con il ricevitore ed il cardio impazziva per qualche secondo, 300 pulsazioni! poi tornava normale. Ma ora banche non ce n’è. Quello che suona è il mio cuore, quello vero, e non ce la fa più. Ed il carro allunga ancora: altri cinque metri, dieci, quindici. I polpacci mandano segnali di resa. Perdo la scia. Quel coso lì, c’è proprio bisogno che diventi il mio futuro, prossimo o remoto che sia? Oppure, pazzia per pazzia, non è il caso di tentare una volata, di quelle alla...morte, alla spacca clavicole, alla Abdujaparov (ma oggi Cipollini, Zabel e Petacchi)? Una volata per la vita! Riémpiti i polmoni e via. Spacca quei pedali! Tira! Tira! Ora capisco cosa significa ‘tirare alla morte’. Ecco cosa vuol dire. Quindici, dieci, cinque metri ancora, il colpo di reni, un nastro sfiorato. Un guizzo, il carro accelera improvviso ed irreale, come un missile, e sparisce nel buio. Però l’ho sfiorato. Si, l’ho proprio toccato. Sarebbe servito? Mi trovavo nel buio, avanzavo solo coi miei pensieri in un silenzio irreale. Ecco distanti, ma non irraggiungibili, le prime luci della città. Pedalo assorto, come un automa, perplesso sulla efficacia del tocco. Sarebbe bastato quel nastro sfiorato con la punta delle dita? Come l’ultima interrogazione dell’ultimo quadrimestre, a maggio, prima degli scrutini: tutto il programma ripassato la notte prima; rispondi a tutto, ma senza brillare. Basterà? È bastato, per fortuna, ma quanta fatica!
Tre settimane dopo, un freddo pomeriggio di gennaio, tornando in bici all’imbrunire, a dieci minuti da casa, una frenata brusca dietro di me. Un volo, un sonno lungo, come di siesta pomeridiana. È coma. Poi il risveglio, tanta gente che mi guarda, steso, a testa in giù. Il traffico bloccato per chilometri. Il sangue che gronda inzuppando i capelli, un torrente che arrossa l’asfalto del Quadrifoglio. “Non si muova, arriva l’ambulanza.” “E la bici?”Un poliziotto: “Non si agiti. Stia calmo. Se ne freghi della bici.” Una ragazza, un viso dolce ed una voce ancora più dolce, con un cellulare in mano: “Vuole che chiami qualcuno?” “Si, mia moglie...” e svengo di nuovo.
Il resto, tutto vero, è scritto nella mia cartella clinica e nel referto della Stradale. Però posso raccontarlo, a tavola, a piedi o in bicicletta. Forse col casco mi fratturavo solo l’alluce. Ora esco in bici solo di mattina e di carri funebri non ne rincorrerò più, almeno per un pezzo!

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